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L'angoscia dello scorrere del tempo in Orazio Oscar Testoni, ultima revisione: 27/07/2020
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La semantica deldi Alfonso Traina, il famosissimo e banalizzatissimo testo Carmina, I, 11 (infatti il sottotitolo del saggio di Traina èCarpe diem Contro la banalizzazione del godi il presente o dell'attimo fuggente), guardiamo ora agli altri testi in cui ricorre lo stesso tema, per vederne conferme o varianti nella sua produzione, rispetto al noto testo. Incominciamo dalla quarta ode del primo libro, che si apre con uno scenario primaverile che scioglie col suo vento l'acre inverno: le navi tornano in mare, il gregge esce dalla stalla, il contadino smette di godere del fuoco, i prati si liberano della brina e Venere, già da Lucrezio associata alla primavera, apre le danze a cui si uniscono le Ninfe e le Grazie, mentre Vulcano sorveglia le officine dei Ciclopi Orazio invita a intrecciare corone di mirto, cosa che potrebbe costituire un invito all'amore, visto che il mirto è una pianta sacra a Venere, come la successiva offerta a Fauno. Ma ecco che la Pallida Mors, in evidenza a inizio di periodo e di verso, personalizzata, bussa ( pulsat) in un presente atemporale (quindi non ora, ma sempre), col piede (e da qui scopriamo che i romani non bussavano con la mano) equo, uguale, imparziale, senza fare distinzione, sia ai tuguri dei poveri ( pauperum tabernas) che alle torri dei re ( regumque turris). Si rivolge allora a Lucio Sestio, come nel nostro testo a Leucone, ma non con un congiuntivo esortativo per invitarla a tagliare ( reseces) una "lunga speranza" ( spem longam) a causa del breve spazio (o essendo breve lo spazio, o dal breve spazio o nel breve spazio - inteso in senso temporale), bensì in terza persona si afferma che "la breve totalità della vita" ( vitae summa brevis) ci vieta, ci impedisce ( nos vetat) di concepire ( incohare) - e si ripete lo stesso sintagma rivolto a Leucone - una lunga speranza, una speranza a lungo termine ( spem ... longam). La constatazione dell'impossibilità di nutrire una speranza a lungo termine è aperta e chiusa dall'immagine della morte che ritorna ora sotto la metafora della notte che incalza il destinatario Sestio ( te), ora delle anime dei morti ( Manes) ora della dimora di Plutone, di modo che Sestio non sarà più re del convito e non potrà più ammirare Licida. Come nel nostro testo si invita l'interlocutore a non concepire una speranza a lungo termine, il contesto è primaverile e non invernale, sullo sfondo si intravvedono le attività umane (i viaggi in mare, il contadino, l'allevatore) e divine (danze di Venere, delle Ninfe e delle Grazie e l'attività di Vulcano) non vi sono imperativi e congiuntìvi esortativi, né in negativo né in positivo: un più blando nunc decetinvita forse all'amore, attraverso l'immagine delle corone di mirto e l'offerta a Fauno e sull'immagine dell'amore omosessuale (argomento tipico della poesia simposiale greca) oltre che sul banchetto sebbene entrambi in negativo (ciò che Sestio non potrà più fare dopo che la pallida Morte lo avrà portato tra i Mani e nei regni plutoni), si chiude l'ode. Nel nostro testo era fugacemente presente il tema del banchetto con l'invito a filtrare i vini, per non attendere il giorno successivo ( vina liques), ma nessun riferimento all'amore.
cras, parola angosciante per Orazio) e di considerare un guadagno qualunque cosa la Sorte, personalizzata, darà e l'invito prosegue rivolto ai giovani a non disprezzare i dolci amori e le danze, finché si è in fiore. La scena conclusiva scivola tra i sussurri degli innamorati, il grato sorriso traditore di una puella che finge di trattenere un pegno (un braccialetto o un anello) che lui vuole strapparle.
moriture Delli) a mantenere una aequam ... mentemsia nella buona che nella cattiva sorte. Nei quattro versi centrali l'invito a farsi portare vini, unguenti e rose dalla breve vita, finché il patrimonio ( res) e l'età ( aetas) e i neri ( atra) fili delle tre sorelle (le Parche) lo consentono. Segue l'elenco di ciò che Dellio (evidentemente benestante) dovrà lasciare: la casa, i pascoli, la villa sul Tevere, beni di cui godrà l'erede. Ricco o povero nulla importa ( nil interest) alla morte che non prova alcuna compassione ( nil miserantis Orci). Con parole che verranno richiamate simili da Ovidio sulla bocca di Orfeo nell'Ade, per convincere Plutone e Persefone non a restituire, ma a concedere in usufrutto Euridice, che appartiene come tutti all'Ade a cui siamo destinati, Orazio ricorda a Dellio che siamo tutti costretti al medesimo luogo ( omnes eodem cogimur) e che è rivoltata nell'urna la sorte di tutti, destinata a uscire ( exitura) prima o poi ( serius ocius) e destinata a salire sulla barca verso un eterno esilio ( in aeternum exilium). I participi futuri (moriture, exitura, inpositura ) incorniciano l'ode conferendo questo senso di ineluttabilità e destino.
Eheu fugaces, Postume, Postume,L'ode 14 inizia con un'interiezione ( Eheu) seguita subito dall'aggettivo ( fugaces) concordato in iperbato con anni. Il suffisso - ac - dell'aggettivo in evidenza fugaces riferito a anni ha una connotazione negativa: fugax è il soldato che fugge abbandonando il suo posto di combattimento, è il traditore. Anche il verbo labunturindica uno scivolare furtivo e silenzioso. Dunque gli anni scivolano via furtivi e silenziosi come traditori che scappano di nascosto dalla postazione loro assegnata. La ripetizione del vocativo del destinatario accentua il senso di trasmissione di una conclusione amara: Postumo, Postumo gli anni scivolano via traditori e la religiosità non ritarderà le rughe, la vecchiaia e l'indomita morte, nemmeno se Postumo cercasse di placare l'ira di Plutone con il scrificio di trecento tori al giorno. Ritorna, come nella precedente, la considerazione che tutti coloro che si nutrono dei doni della terra là nell'Ade sono destinati, ricchi o poveri che siano. Invano ci teniamo distanti dalla guerra o dai viaggi nel mare burrascoso o dai venti autunnali che fanno ammalare. Deve essere visitato lo scuro (e di nuovo ricorre l'aggettivo ater) Cocito e devono essere visitati gli abitanti infernali. Deve essere abbandonata la terra, la casa, l'amata moglie e solo i cipressi tra gli alberi coltivati lo seguiranno. Il partecipio futuro dell'ode precedente col suo significato di predestinazione è qui sostituito dal gerundivo col suo senso di ineluttabilità. L'immagine del simposio è sostituita dalla dolcezza dell'affetto sponsale e non come invito a goderne, ma come realtà positiva che dovrà essere abbandonata. Gli alberi che postumo coltiva da una parte sono il pretesto per inserire l'immagine dei cipressi che perpetuano il clima funereo che pervade tutta l'ode, dall'altra introducono il tema dei beni accumulati (evidentemente anche Postumo, personaggio reale o fittizio è benestante). L'erede godrà dei suo beni e berrà, sprecandolo e versandolo pure al suolo, il suo vino migliore ben custodito. Ricorre ancora l'immagine del vino, ma questa volta non come invito a filtrarlo, servirlo, berlo, bensì come immagine di un bene che godrà l'erede, in quanto il destinatario non potrà portarselo con sé nell'Ade. Il finale riecheggia, senza che Orazio ne sia consapevole, i toni di Qoelet (o Ecclesiaste) sulla vanità di accumulare beni di cui godranno gli eredi.
ne speres) inmortalia, cose immortali, posto in rilievo a inizio verso. L'ora (hora) regge una relativa: quae rapit almum diem (riordinato), che rapisce (azione violenta e rapida) il giorno che dà vita, portatore di vita. Ancora una volta notiamo la connotazione positiva del dies: è ciò di cui disponiamo, è ciò che viene rapito dall'anno e dall'ora, è ciò che dobbiamo staccare volta per volta dall'aetas (Odi I, 11) invidiosa. Tutti i nomi del tempo sono cattivi, solo il giorno è l'oggi, è l'unità di misura della vita. Cras, domani, è già una parolaccia. Ritorna la descrizione metereologica con i freddi che si fanno miti agli Zefiri, ma già l'estate calpesta la primavera e la stessa estate è connotata dal participio futuro interitura, "destinata a morire", quindi l'autunno ricco di frutti e subito l'inverno. "Tuttavia le lune riparano veloci i danni celesti, noi quando precipitiamo dov'è il pio Enea, dove sono i ricchi Tullio e Anco", pulvis et umbra sumus. Ecco il contrasto, tra la ciclicità della natura capace di rinnovarsi e l'unicità della nostra vita. Contrasto già visto in Catullo: "i soli possono tramontare e ritornare, noi invece, quando tramonta una sola volta questa breve luce donbbiamo dormire una notte perpetua" e quel "Cum semel occidit" catulliano ritorna qui pochi versi più avanti (20) nel "Cum semel occideris". Il luogo dove noi precipitiamo è questa volta abitato non da mostri bensì da personaggi illustri, pii come Enea e ricchi come Tullio e Anco: fama, nobiltà, devozione, ricchezza non sono serviti a risparmiarli dal destino finale: noi, una volta precipitati là, siamo polvere e ombra, immagine e parole che di solito vengono proiettati nel Medioevo e invece troviamo nel tradizionalmente presentato come apollineo poeta dell'età augustea. Una domanda retorica introduce il tema dell'inconoscibilità del futuro, già presente in Carmen I, 9 e in Carmen I, 11, ma senza l'idea di sacrilegio, bensì di semplice ignoranza: chi sa se gli dei che stanno in alto aggiungeranno alla totalità odierna i momenti di domani? Come nella precedente torna il tema dell'erede che in questo caso sperpererà velocemnte ciò che il destinatario gli avrà donato con animo amico, mostrando dunque l'inutilità dell'accumulo. Ecco la iunctura catulliana Cum semel occideris(Quando una sola volta, una volta per tutte, sarai precipitato) "e Minosse ti avrà giudicato" nulla potrà riportarti in vita: né l'appartenenza a una nobile stirpe (come già nella precedente il riferimento a Enea), né l'abilità di parlare (forse un'allusione a Orfeo?), né la devozione. Due esempi mitici mostrano come, se neppure gli dei (Diana e Teseo) sono stati in grado di riprtare dall'Ade i loro cari (rispettivamente Ippolito e Pirìtoo), a maggior ragione non torneremo dall'Ade noi.
Rapiamus amici occasionem de die.... Come abbiamo gia visto nella Semantica del 'carpe diem'di Alfonso Traina, qui il termine 'rapio' connota l'azione nel senso di violenza e rapidità: si tratta di strappare dal giorno un'occasione (azione, dunque, diversa e distante da quella del care diem), e finché le gionocchia hanno vigore e si addice, venga sciolta la vecchiaia dalla fronte contratta. Ecco il tema simposiaco del vino a cui - mentre un dio farà tornare sereno il cielo, si aggiunge il tema dei profumi e della musica per sollevare i cuori dalle funeste angosce. Qui si inserisce il canto del centauro che preannuncia al giovane invincibile Achille, mortale nato dalla dea Teti, a cui, chiamato a combattere a Troia, le Parche hanno rotto il ritorno con il filo stabilito e allora lo invita a scacciare gli affanni col vino e col canto.
supremumogni giorno omnem ... diemche sia sorto per lui. Sopraggiungerà allora gradita l'ora che non sarà sperata. La considerazione di vivere il giorno presente come fosse l'ultimo è tipico della concezione stoica, anche se Orazio nella conclusione dell'epistola si definisce grasso e lucido maiale proveniente dal gregge di Epicuro e in generale faccia più spesso esplicito riferimento alla filosofia epicurea che alla stoica.
strenua inertia(nell'Epistula I, 8 definito funestus veternus), l'Epistula I, 11, contiene una delle espressioni analizzate da La semantica del "carpe diem"di Traina. Sumere, indica dunque qui un prendere con gratitudine per usarne, un dono di un dio senza rinviare le dolcezze di anno in anno. Pur contenendo anche il tema del tempo, manca come nel precedente il tema simposiaco, di frequente presente nei componimenti di Orazio sul tempo. Oscar Testoni, ultima revisione: 27/07/2020
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